Where is The Boys and Kifer? Part II (Academy of Brera)















TBAK (Story of a mask)











Where is The Boys and Kifer? (Marsèlleria)








SARDINIAN TOUR – UNTITLED (SA CARRIGA)





























THE BOYS AND KIFER – band diary 4 (witbak?)










“Diventa sempre più difficile ricordare con precisione a quale principio fondamentale dobbiamo restare fedeli. L’ideale dell’autenticità si sta sfilacciando; il significato di sincerità scivola lentamente nell’indeterminatezza. […] La personalità eclettica è un camaleonte sociale, in quanto prende costantemente in prestito frammenti di identità da qualsiasi fonte disponibile e li combina in modo tale da renderli utili o desiderabili in una data situazione.”
K.J. GERGEN, The Sature Self: Dilemmas of Identity in Contemporary Life, Basic Books, New York 1991, p. 150
Where is The Boys and Kifer?, attraverso diversi generi e collaborazioni, tratterà il tema del mimetismo (artistico e sociale).
Cosa significa rifiutare la propria individualità? Ricercare l’approvazione della collettività? L’individuo, consapevole della propria solitudine e dell’incapacità di comunicare realmente con gli altri, Intraprende esercizi di trasformazione che lo portano a immedesimarsi con ciò che non è. La storia dell’uomo è una storia culturale, ma prima di tutto di istinto sociale. Abbiamo bisogno di aggregazione, di sentirci parte di una tribù, di una collettività, tutt’ora è così. Ma col tempo è cambiata la concezione dell’individuo in relazione a quella di folla o di massa. L’io si chiede: cosa sono realmente? In assenza di una risposta Reale – di una verità che per Lacan non può essere raggiunta con il linguaggio né con l’immaginazione – l’uomo cerca motivo di vivere attraverso la relazione con l’Altro. Tuttavia l’Altro dev’essere considerato come un altro “io” che, quindi, non ha capacità conoscitive né verso di sé né verso gli altri. L’incomunicabilità che sta alla base di ogni relazione uno ad uno, scatena il tentativo disperato di entrare a far parte di un tutto, in questo caso, di una collettività. Questo insieme di individui viene costruito tramite il Simbolico e l’Immaginario (riprendendo ancora una volta Lacan). Il Simbolico altro non è che una subordinazione del linguaggio, ovvero ciò che serve all’uomo per definire e categorizzare ogni aspetto della sua esistenza. Il simbolo è ciò che si è – non si tratta di un essere Reale ma piuttosto figurato – nella società in cui si vive. L’uomo può, attraverso il linguaggio e il simbolico, definire la Morte, ma non può comprenderla poiché l’esperienza della Morte stessa non può essere definita attraverso la Parola. L’immaginario sarebbe la stratificazione delle identificazioni, ovvero l’insieme delle rappresentazioni nelle quali l’Io si rifugia per rapportarsi agli altri.
Nel momento in cui parliamo di mimetismo possiamo dire che l’utilizzo della parola – o comunque del linguaggio – e dei modelli immaginifici sia strettamente correlato ad una funzione sociale e collettiva che va oltre l’individuale, tralasciando il Reale.
Quando Benjamin dice che
“il gioco infantile è tutto pervaso da condotte mimetiche, e il loro campo non è affatto limitato a ciò che un uomo imita dell’altro”
W. BENJAMIN, Angelus Novus, Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962, pag. 71
intende dire che l’uomo sin dalla sua nascita ha la capacità di immedesimarsi, da prima attraverso il gioco, in qualcosa di esterno da sé stesso (non solo comportamenti umani ma anche veicoli e animali). Attivare la facoltà mimetica significa vedere nella propria identità la possibilità di differenza ma anche dare forma e senso all’informe e all’insensato. Il linguaggio dunque è oggi la facoltà mimetica per eccellenza. Secondo Benjamin è nella lingua che risiede il mezzo attuale
“in cui emigrarono senza residui le più antiche forze di produzione e ricezione mimetica, fino a liquidare quelle della magia.”
Ibidem, pag. 74
Nell’antichità l’uomo ricorreva spesso all’imitazione della natura, quasi come se fosse necessario allinearsi ad essa, comprenderla attraverso un costruzione formale e spirituale, entrare a farne parte. Questo allineamento avviene non necessariamente attraverso una somiglianza diretta con la natura, ma piuttosto attraverso ciò che è comunemente percepibile. Questo “sentire” non oggettuale può essere chiamato “somiglianza immateriale” di cui anche la danza si fa portatrice. I movimenti della danza non si rifanno alla mera oggettualità, ma piuttosto ai comportamenti, all’espressione di un determinato volto, ecc. I danzatori spesso si ritrovano a “sentire” i movimenti, le sicurezze, le instabilità e le vulnerabilità dei compagni accanto. Durante gli esercizi di improvvisazione si ritrovano a imitarsi l’un l’altro, ad accompagnare i gesti altrui, a costruire assieme una situazione spazio-temporale attraverso una inconsapevolezza che si traveste di una consapevolezza corale. Essere e non essere, vedere e non vedere, sentire e non sentire. L’imitazione è contraddizione. L’imitazione è legame tra soggetto e mondo, riproducibilità di quest’ultimo attraverso il sentire del soggetto. Sentire individuale sicuramente che, come abbiamo detto, deriva dall’istinto di allineamento con l’esterno da me. Questo allineamento avviene attraverso l’inserimento nella folla, l’immedesimarsi con essa, entrare a farne parte. Tuttavia se prima la folla rappresentava un ruolo attivo nel bene o nel male, oggi sembra essersi trasformata, con l’arrivo del digitale, in uno “sciame” citando Byung-Chul Han.
“Lo sciame digitale non è una folla, poiché non possiede un’anima, uno spirito. L’anima raduna e unisce: lo sciame è composto da individui isolati. La folla è strutturata in modo totalmente diverso: ha caratteristiche che non vanno attribuite ai singoli. I singoli si fondono in una nuova unità, all’interno della quale non dispongono più di un proprio profilo. Un assembramento casuale di uomini non costituisce ancora una folla: ciò avviene soltanto quando un’anima o uno spirito li saldano in una massa omogenea, in sé chiusa. Allo sciame digitale manca l’anima della folla o lo spirito della folla: gli individui si uniscono in uno sciame, non sviluppano un Noi”
B.C. HAN, Nello sciame – Visioni del digitale, nottetempo, Milano 2015, pag. 22-23
Nello sciame digitale l’Uno si palesa costantemente, vuole sempre emergere come un Qualcuno. Perciò non potrà mai far parte di un Noi, non entrerà mai in una folla attiva. Pur emergendo tuttavia, l’uomo digitale rimarrà anonimo davanti a uno schermo, non si esporrà mai in uno spazio comunemente legato alla folla.
Dunque il mimetismo oggi è cambiato e può essere rappresentato più come un flusso mediatico in cui singole persone si inseriscono dicendo continuamente la loro senza che la propria “azione” sia realmente “attiva”.
Sembra non esistere più l’uomo della folla descritto da Poe. Ora abbiamo osservatori riflessi sui propri schermi che si radunano in hyper-tribù, cerchie di utenti accomunati dalle stesse passioni. Nell’hyper-tribù non esiste la negatività che contraddistingue l’Altro, abbiamo solamente ciò che ci piace. L’azione mimetica ha senso solamente nel momento in cui vogliamo prendere le sembianze di qualcosa di diverso da noi, perché questo qualcosa rappresenta la sfida al linguaggio e alla mia stessa personalità.
“La negatività dell’Altro e della trasformazione è ciò che costituisce l’esperienza in senso enfatico. Fare esperienza di qualcosa significa <<che quel qualche cosa per noi accade, che ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge, e trasforma>>. La sua essenza è il dolore. L’Uguale però non provoca dolore. Il dolore oggi cede il posto al mi piace, che è una prosecuzione dell’Uguale.”
B.C. HAN, L’espulsione dell’Altro, nottetempo, Milano 2017, pag. 10
Qua Han inserisce una citazione di Martin Heidegger contenuta nel libro “In cammino verso il linguaggio“, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1979, pag. 127.


Perciò la sparizione dell’Altro rappresenta oggi la morte della negatività ma anche del mistero. Bisogna dunque ripristinare un dialogo, in maniera attiva, con l’Alterità.
Il linguaggio, come abbiamo detto, diventa la forma principale di immedesimazione. The Boys and Kifer utilizza la musica come un qualsiasi altro linguaggio. Essa diviene parola, situazione, simbolo, identità. Ed ecco che l’album musicale diventa una stratificazione di linguaggi differenti, che solo apparentemente si manifestano come canzoni. Le collaborazioni con diversi artisti e musicisti sono una chiara appropriazione di identità altrui, dei loro linguaggi. Ma le collaborazioni stesse si mascherano attraverso l’utilizzo di sonorità e generi appartenenti a qualcos’altro. La musica sperimentale, il pop anni 80, il tribale, i suoni tradizionali sardi, il post-rock, l’hip-hop, il noise e il pop rock, sono tutti generi che hanno rappresentato dei punti di svolta nella storia o semplicemente continuano a rappresentare qualcosa oggi. La stessa musica tradizionale, in questo caso, è importante perché, soprattutto in Sardegna, diviene sottofondo di mutamenti sociali e artistici che tuttavia non gli permettono di scomparire del tutto. Essa rimane lì, sullo sfondo, e continua ad esistere.
Importante è anche l’uso della parola e della lingua. The Boys and Kifer in passato ha sempre usato la lingua inglese all’interno di canzoni che prevedevano il canto. Questo a causa di forti influenze del passato ma anche per l’importanza che si dà oggi alla lingua inglese. Se The Boys and Kifer è una band musicale dev’essere una band che canta in inglese, la lingua più usata nell’era contemporanea. Il nuovo album mantiene intatta questa preferenza ma, in qualche modo, si fa carico delle differenziazioni che esistono, in modo da potersi adattare a molti altri punti di vista, a mimetizzarsi con realtà diverse. Al suo interno troveremo anche una canzone in francese, una in giapponese e una in italiano. Considero quest’ultima il punto focale dell’intero progetto. Collocata a metà dell’album, essa è una collaborazione tra The Boys and Kifer e Roberto Casti. Attraverso un testo enigmatico realizzo una scissione tra un modo di essere e un modo di fare. Una realtà non esclude per forza l’altra (in quanto entrambe risultano essere delle “maniere”), ma ognuna può prevalere in determinati momenti. Considero la canzone un prequel di The Boys and Kifer.
Scissione
°
Quaggiù sento di perdermi
come in un nero oceano.
°
La mia lingua scompare
in una torre innominabile.
°
Noi potremmo fregarcene
e bere ancora fino a domani.
°
Tu che sai sorridere
preferiresti andare giù, via da me.

“The Ending song” e “The Man of The Crowd”
Quando mi chiesero di lavorare alla mia prima mostra, avevo tante idee in testa. Volevo creare un ambiente in cui ogni cosa sembrasse incastrarsi con le altre attraverso una connessione primordiale, non concettuale. Volevo innanzitutto nascondere l’individualità di ogni opera, creando una composizione esperienziale (come mi piace chiamare gli allestimenti dei miei lavori). Questa concezione di coralità (quasi forzata) viene da tutte le mie riflessioni sulla solitudine a cui ho lavorato nei mesi precedenti. Per chiarirmi (o confondermi di più) le idee, buttai giù due righe che presentai poi alle curatrici.











Cosa faccio io quando entro in un locale?
Percepisco l’atmosfera.
Inutile cercare di non apparire.
C’è il fumo e non dimentichiamoci che c’è buio.
Le persone ballano, io no.
Faccio la fila per prendere da bere, ma c’è troppa gente.
Non spingetemi.
Bevo.
La musica è forse l’unica cosa buona.
Provo a ballare e inizio a percepire meglio.
Sono sicuro che qualcuno mi stia guardando.
Non è vero.
Continuo a ballare mentre la folla aumenta.
Siamo tutti schiacciati, a breve diventiamo una cosa unica.
Io chi sono?
Cosa ero?
Siamo una cosa unica, forse.
No. Sì.
Siamo troppi, perciò esco.
Nel pacchetto c’è una sola sigaretta, ho paura di sprecarla.
Non fumo mai.
Chiedo l’accendino. Quello che mi prestano ha la scritta “Futurismo” sul lato.
Divertente.
Fumo.
Non parlo con nessuno.
Qualcuno mi può spiegare cosa ci faccio qui?
Sono all’esterno del locale.
Sento l’odore di cipolla provenire dai paninari.
Mi avvicino e li vedo.
Mangiano, parlano, bevono, fumano.
Tra loro c’è lui.
Un ragazzo che vende rose.
Nessuno lo nota.
Ma lui è lì.
Siamo da soli, amico.
Da soli insieme.
Tempo prima avevo scritto anche una canzone per The Boys and Kifer che s’intitola “The ending song”.
Tratta più o meno temi legati alla collettività e alla solitudine: un ragazzo, dopo la fine di una relazione, passa la serata all’interno di un club per cercare di distrarsi divertendosi. Il risultato è un po’ il contrario di quello che voleva ottenere: si ubriaca, balla ma si ritrova in mezzo ad una folla che, come lui, beve e balla per sentirsi parte di un’esperienza comune. Questa situazione non fa altro che avvicinarlo alla consapevolezza che tutte le persone in quella stanza, lui compreso, sono sole. Tutti non possono fare altro che concedersi ad una danza con la speranza che le preoccupazioni esterne non ritornino a tormentarli. Il ragazzo esce dal locale e, guidato dal profumo di cipolla proveniente da un paninaro, trova in un’altra persona, in questo caso un venditore di rose, una sorta di consolazione in quanto entrambi si muovono solitari in mezzo alla folla affamata e sbronza.
Quest’idea di muoversi in mezzo alle persone, osservarle con malinconia e con senso di perdizione eterna, arriva anche da Edgar Allan Poe. Il suo racconto “L’uomo della folla” coglie nel segno. Esso descrive la vicenda di un uomo che si ritrova all’interno di un caffè mentre osserva le persone che passano all’esterno. Come per gioco, ma con estrema serietà, cerca di decifrare i minimi dettagli dei passanti arrivando persino a ipotizzarne i lavori e le classi sociali. Ad un tratto l’uomo rimane però incuriosito da uno strano individuo anziano di non facile interpretazioni. Il protagonista dunque decide di seguirlo per scoprire qualcosa di più. Il vecchio sembra vagare in mezzo alla folla senza un apparente obiettivo, tant’è che diverse volte tornano al punto di partenza e pare non si accorga neanche della presenza del suo inseguitore. Dopo quasi quarantotto ore il protagonista si fa notare volutamente sbarrandogli la strada, ma il vecchio continua a camminare restando indifferente. L’uomo capisce che non c’è possibilità di scoprire qualcosa di più sullo strano individuo. Quest’ultimo rimane l’uomo della folla, non può farne a meno. Non vuole restare solo.
I venditori di rose, come già accennato, mi affascinano. Durante le serate in giro per la città, mi capita di osservarli e, ovviamente, di provare anche una certa pena per loro. Un individuo con l’aspetto malandato che si muove ai margini della società e ignorato da tutti attira – purtroppo oserei dire – facilmente la mia attenzione. tempo fa rimasi colpito da una fotografia di Jeff Wall intitolata “In front of a nightclub” (2006), in cui diverse persone vengono fotografate all’esterno di un club. Ci sono persone che mangiano, passanti, qualcuno che parla o fuma, ecc. Però il punto focale di tutta la scena, come dice lo stesso Wall, è un venditore di rose che si trova sulla parte sinistra della foto.
La canzone in collaborazione con Alessandro Moroni si chiama “The Man of the Crowd” come il racconto di Edgar Allan Poe, per l’appunto. La ricerca artistica di Alessandro si basa sul sottofondo. Spesso realizza lavori che fungono da pattern per una mostra. Dal punto di vista musicale è appassionato di minimalismo e post-rock. La scelta di inserire il riferimento al racconto di Poe, mi sembrava azzeccata.
Creazione dell’immagine dell’altro

“L’oggetto viene amato a causa delle perfezioni cui abbiamo mirato per il nostro Io e che ora, per questa via indiretta, desideriamo procurarci per soddisfare il nostro narcisismo”
(Sigmund Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io)
Parlerò qui di un tema che ho sempre lasciato da parte a causa del troppo materiale semplicistico presente nel mondo: la relazione amorosa con un’altra persona. Potrei cadere in banalizzazioni, potrei sbagliarmi, ma vorrei provare a parlarne. Non lo faccio perché sono innamorato o perché lo sono stato, ma perché rivedo nell’atteggiamento amoroso, nel tentativo di relazionarsi intimamente con un altro soggetto, la volontà di andare oltre la propria incomunicabilità, la ricerca disperata di unione ma anche il provare a sacrificare il proprio ego. C’è qui una contraddizione alla base, che è la stessa che muove la fruizione di un’opera d’arte. L’uomo tenta continuamente di enunciare a parole l’incomunicabile. L’opera d’arte nasce proprio dalla necessità di esprimersi in modi che non avrebbero alcun senso razionale nella vita reale. Il fruitore dovrebbe essere al corrente di questa situazione, perciò il rapporto che instaura con un’opera si rivela essere del tutto privo di utilità. Tuttavia questo rapporto esiste, perché chi guarda un’opera prova un sentimento, nonostante non riuscirà ad addentrarsi nell’incomprensibile volere dell’artista. Questo atto di fede verso l’arte, è atto di fede verso l’amore. Si tratta di un atto di fede perché dedichiamo la nostra attenzione a qualcosa che non possiamo comprendere del tutto ma che ha comunque la possibilità di farci provare dei sentimenti. Di fatto l’arte e l’amore sono due elementi che contraddistinguono l’essere umano. L’arte nasce dalla tecnica – la techne è il mezzo umano per eccellenza – per poi superarla e contraddirla, l’amore arriva dalla riproduzione e diventa affetto che può cancellare la riproduzione stessa.
L’importanza del tema dell’amore è eguale alla quantità di media che lo affrontano. Pensiamo al tema dell’amore come quello più banale perché, effettivamente, qualsiasi campo della cultura umana ne ha parlato. Ne hanno parlato i Beatles, Sorrentino e Barthes ma ne hanno parlato anche Justin Bieber e Fabio Volo. Spesso rimaniamo àncorati al tema dell’amore rapportato a quello della sdolcinatezza e della positività. Forse per questo tante volte ho cercato di evitarlo e di rimandarlo. O forse perché credo che le mie esperienze non vogliano dire nulla. Tuttavia un album di musica basato sulla mimetizzazione e sulla stereotipizzazione, come sarà quello di The Boys and Kifer, non può permettersi di non toccare un argomento del genere.
Ma non mi interessa parlare del tema dell’amore di per sé, di metterlo in discussione o di raccontare mie esperienza personali. Mi interessa analizzare la costruzione dell’altro, o per usare i giusti termini, la costruzione dell’immagine dell’altro. Non si parla quindi esattamente di amore, ma piuttosto di un processo dalla quale si deve passare, e per forza di cose superare, se si vuole arrivare alla conoscenza intima dell’altro.
Quando entriamo in contatto con un’altra persona e ne rimaniamo affezionati, ci agganciamo ad un processo conoscitivo deviante dell’altro. Il primo livello di conoscenza è quello visivo e si basa su ciò che vediamo del secondo soggetto. Il successivo livello di conoscenza avviene tramite un iniziale rapporto di interazione che, se le due persone vogliono portare avanti, si trasformerà in un rapporto di conoscenza confidenziale. Questo livello di conoscenza, tuttavia, è quello più ambiguo perché non rappresenta il punto più vicino dell’altro che possiamo raggiungere. Come ho già scritto in precedenza, non è possibile conoscere realmente l’altro, in quanto egli stesso rappresenta un dilemma incolmabile prima di tutto per sé. Il massimo grado di avvicinamento è quello in cui una persona si ritrova a comprendere l’altro, senza però mai provare su sé stesso i suoi problemi. All’interno di una relazione intima o amorosa, i due soggetti tenteranno all’infinito di avvicinarsi l’un l’altro ma il massimo che possono ottenere è una sopportazione (vista positivamente) reciproca in cui un soggetto soffre o prova emozioni e l’altro compatisce, e viceversa.
Torniamo però al livello di rapporto confidenziale essendo quello che mi interessa al momento. Questo stadio della conoscenza dell’altro pone i due soggetti in uno stato di avvicinamento in cui i problemi – che in questo caso possono essere chiamati difetti – vengono meno. Questo perché ciò che i soggetti cercano di far notare, inconsciamente in alcuni casi, non sono altro che le nostre qualità. Di fronte alla visione delle qualità di un soggetto, noi costruiamo un’immagine deviata di chi abbiamo davanti. Questa visione incompleta viene portata all’esasperazione grazie ad una ulteriore sovra-costruzione dell’altro. Cosa comporta questa sovra-costruzione? La creazione di un mondo inesistente, fatto di desideri e speranze, basato su quello che apprendiamo dell’altro e su come questo possa essere rapportato ai modelli pre-esistenti di “soggetti amati”. Entra in campo quindi l’immaginario che i media, siano essi letteratura, cinema, musica e quant’altro, costruiscono attorno al tema della relazione amorosa. Quando siamo all’interno di questa bolla, tutti i comportamenti dell’altro sembrano tendere al compimento dei nostri desideri.
La bolla in cui viviamo ci illude perché alimenta quei modelli comportamentali che l’essere umano si porta dietro da tempo. Pensiamo al luogo comune secondo il quale non possa esistere un’amicizia intima tra due persone di sesso diverso (messo in discussione soprattutto dall’esistenza di relazioni tra persone dello stesso sesso o di altro genere). Oggi cerchiamo di abbattere i luoghi comuni, ma alcuni comportamenti rimangono inconsciamente invariati.
Per l’album di The Boys and Kifer ho deciso di scrivere una canzone d’amore servendomi di alcuni elementi riconducibili all’immaginario dell’amore stesso. La parte cantata sarà in francese, lingua romantica e sensuale per eccellenza, e prevederà un duetto tra voce maschile e femminile. La base è riconducibile invece a delle sonorità degli anni ottanta, caratterizzate dall’uso di arpeggiatori, da un ritmo ballabile e dall’inserimento di dialoghi provenienti da alcuni film di Jean-Luc Godard, in particolare “Pierrot le fou” del 1965 e di “Une femme est une femme” del 1961. Proprio quest’ultimo film viene considerato da Godard un inno alla femminilità, ma soprattutto alla sua musa – e in quel periodo neo-moglie – Anna Karina. La meta-narrazione utilizzata dal regista francese rende dichiaratemene esplicita l’intenzione di fare un film sul film – o meglio – un film sul film musicale. Il risultato è una messinscena assurda e comica in cui i dialoghi tra i personaggi principali riflettono in qualche modo i voleri contraddittori di una coppia. In “Pierrot le fou” invece, caratterizzato dalla de-costruzione degli elementi polizieschi e crime ma anche del linguaggio cinematografico stesso, l’amore viene prima della morale. I gesti che il protagonista è disposto a compiere per far fronte alla propria vita insoddisfacente e per restare con la sua amata, sono immorali. L’omicidio, il furto, l’abbandono dei famigliari, il tradimento, sono tutti comportamenti anti-etici che i personaggi di Godard sono disposti a compiere pur di scappare con la donna di cui sono innamorati. Il gesto anti-eroico si fa qui portatore di un inconsueto romanticismo che, tuttavia vedrà la sua fine nel momento in cui i personaggi stessi rimarranno uccisi o traditi dal soggetto per cui provavano amore. In “Pierrot le fou” Ferdinand viene tradito da Marianne e dal suo nuovo amante. Questi ultimi rimarranno uccisi dallo stesso Ferdinand, che deciderà poi di farsi saltare in aria grazie a diversi candelotti di dinamite legati alla propria testa. Ne “Le Mépris” del 1963, uno dei miei film preferiti di Godard, lo sceneggiatore interpretato da Michel Piccoli è disposto apparentemente a tutto pur di entrare nelle grazie del produttore americano per cui lavora. Anche di assecondare le avance che quest’ultimo fa a sua moglie, interpretata dalla bellissima Brigitte Bardot. in questo film tuttavia non si parla di amore, ma di disprezzo. Disprezzo che Bardot prova per l’indifferenza del marito, disprezzo che la porta a vendicarsi di lui cedendo alla corte del produttore. Il personaggio di Piccoli capisce di aver sbagliato ed è disposto a lasciare il film pur di riavere la moglie con sé, ma sarà troppo tardi. Lei scappa con il produttore ed entrambi muoiono in un incidente stradale. In questo film è reso evidente lo scontro tra stereotipi maschili e femminili: l’uomo che deve confermare sempre il suo amore e dimostrare gelosia, la donna che non può dire parolacce e che deve restare fedele.




La canzone può essere suddivisa in due parti: la prima metà può essere vista come una parte pop il cui testo, strutturato in classiche strofe e ritornelli, sottolinea i mix di desideri e sogni che il protagonista fa suoi attraverso le promesse e le parole della persona di cui è innamorato; nella seconda metà l’atmosfera si fa più cupa (da un giro di tre accordi maggiori e uno minore – SOL, DO, FA, LA minore – si passa a un SOL minore) e le sonorità più psichedeliche.
Questa parte è una presa di coscienza, come uno di quei sogni in cui ti rendi conto di star sognando. La parte finale del testo è una sorta di contraddizione in quanto il protagonista, deluso dai veri pensieri del soggetto amato, vorrebbe vivere lontano da esso e sopravvivere solamente accarezzando l’idea, l’immagine che aveva di esso.
Questo il testo della canzone:
J ai pensé à toi aujourd’hui
Visage coupé par la lumière
Yeux olive, comme la mer
°
Regardons un film
Braquons une banque
Fuyons en voiture
Partons à Brussels, toi et moi
°
Ce que je vois de toi ç’est ce qui me plaît
Ce que tu me fais voir ç’est ce que
j’imagine de toi
Voici la condition de l’être :
Construire autour de moi, autour de toi,
L’echo de se che nous sommes
Et de ce nous voudrions
°
J’ ai rêvé de toi, hier
Sur la plage avec tes lunettes
Lumière rouge sur ton visage
Derrière toi un fond bleu
°
Parlons de nous,
Perdons nous à Milan
Loin de ce monde
Qui nous a jamais voulu
°
Je voudrais une idée de toi
Vivre loin de toi
Seulement pour t’immaginer
Et te caresser, comme ça



La canzone funziona come una sorta di immedesimazione, o se vogliamo di mimetizzazione, all’interno dell’universo immaginifico romantico. Prendendo le parole di Roland Barthes
“il soggetto s’identifica dolorosamente con qualsiasi persona (o qualsiasi personaggio) che nella struttura amorosa occupi la sua stessa posizione”
R. BARTHES, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 1979, Pag. 102
ma, aggiungo io: rivede anche il soggetto amato in personaggi provenienti da cinema, libri, ecc.
Lo stesso libro di Barthes funziona per immagini – o per meglio dire “figure” – nelle quali l’innamorato può rispecchiarsi. L’immaginario è una gabbia dalla quale non si può scappare, ed è per questo che
“leggendo un romanzo d’amore, non è esatto dire che io mi proietto; io aderisco all’immagine dell’innamorato (dell’innamorata), mi rinchiudo con questa immagine nella clausura del libro”.
Ibidem, Pag. 104
Tuttavia bisogna cercare di sfuggire dal modello, ripiegare sulla ricerca di un originale, di una mia verità che, come sappiamo, non possiamo raggiungere del tutto ma che possiamo avvicinare grazie alla scoperta dell’Altro. Perciò solo la ricerca dell’Atopos – dell’”Unico” ovvero “l’Immagine irripetibile che corrisponde miracolosamente alla specialità del mio desiderio” – può condurci ad una scoperta più sincera dell’altro.
“Ciò che bisogna conquistare è l’originalità della relazione. La maggior parte delle ferite d’amore me le procura lo stereotipo: io sono costretto, come tutti, a fare la parte dell’innamorato: ad essere geloso, trascurato, frustrato come gli altri. Ma quando la relazione è originale, lo stereotipo viene sconvolto, superato, evacuato, e la gelosia, ad esempio, non ha più luogo d’essere in questo rapporto senza luogo, senza topos, senza <<topo>> – senza discorso.”
Ibidem, Pag. 39
Ma come parlare dunque della relazione con l’Altro senza creare discorsi, figure, immaginari? Apparentemente non si può. La sottomissione dell’uomo al proprio linguaggio porta irrimediabilmente alla classificazione continua di idee e pensieri che immediatamente si trasformano in immagine, in modello, in simbolo. I media, dal cinema alla scrittura, rendono sensibili delle idee e delle esperienze. Queste entrano a far parte dell’immaginario comune e, spesso, rendono spettacolare e stupiscono di più del Reale. Pensiamo non solo all’immagine che, con il tempo, abbiamo costruito della donna, di una cultura diversa dalla nostra ma anche di una città o di un luogo che nell’immaginario comune diventa sinonimo di paradiso. Al giorno d’oggi, in cui possiamo visitare una città restando a casa nostra davanti al computer, è più semplice perdere la curiosità verso ciò che non ci appartiene, verso ciò che non conosciamo realmente?
“La cosiddetta Sindrome di Parigi indica un disturbo psichico acuto che colpisce prevalentemente i turisti giapponesi. Chi ne è affetto soffre di allucinazioni, deruralizzazione, depersonalizzazione, angoscia come pure di sintomi psicosomatici quali vertigini, sudorazione o palpitazioni. Il fattore scatenante è la grande differenza tra l’immagine ideale di Parigi, che i giapponesi hanno prima del viaggio, e la realtà della città, che si discosta notevolmente da quell’immagine ideale. è da supporre che la tendenza coatta e quasi isterica dei turisti giapponesi a scattare foto rappresentanti una reazione difensiva inconscia, che mira ad esorcizzare attraverso le immagini il Reale che li spaventa. Le belle foto, come immagini reali, schermano dalla sporca realtà.”
B.C. HAN, Nello sciame – visioni del digitale, nottetempo, Milano 2015, pag. 43
Perciò l’immagine, intesa come filtro della realtà, ci allontana dalla verità? Si, se prendiamo in considerazione il pensiero di Guy Debord o di Hakim Bey. Tuttavia l’immagine può avvicinare al Reale nel momento in cui noi viviamo l’esperienza dell’immagine come un’esperienza vivente. Ovvero quando non ci lasciamo sopraffare dall’immagine in sé ma piuttosto quando abbiamo consapevolezza del nostro Io di fronte a quella cosa. Dare importanza all’Io, quindi alla mia presenza spazio-temporale, di fronte all’immagine nega la mia totale passività nei confronti di quel determinato medium. La consapevolezza individuale che mette prima me di fronte al resto, permette non solo un abbattimento temporaneo dell’assuefazione dall’immagine, ma anche il passo iniziale per scoprire l’Altro. Qua molti penseranno che si tratta di un controsenso: come è possibile che per avvicinarmi all’altro devo partire da me stesso? In realtà la concezione narcisistica dell’Io è il punto di partenza necessario per raggiungere una qualsiasi virtù, compreso l’amore. Jankélévitch spiega bene questo pensiero nel suo Trattato delle Virtù. Per il filosofo francese il raggiungimento di ogni virtù parte da una concezione individualistica, e egoistica se vogliamo, e passa per il superamento di un ostacolo. Non esiste dunque coraggio senza paura, altruismo senza egoismo, sincerità senza bugia, perdono senza colpa. La reale virtù viene raggiunta solo se viene attuato un sacrificio. Il traguardo virtuoso si raggiunge grazie alla compresenza nell’animo dell’intenzione inversa, perciò
“Bisogna essere un pò egoisti per essere disinteressati, un pò vigliacchi per essere coraggiosi e un pò bugiardi per essere sinceri!”
V. JanKélévitch, trattato delle Virtù, pag. 54
Ma il vero sacrificio per Jankélévitch avviene con l’amore. Il rapporto 1:1 con una persona ci mette di fronte a una terribile incognita in quanto:
“L’interesse pubblico, dicevamo, prevale e risulta preponderante sull’interesse di uno solo. […] Ma niente dice, quando si tratta di un solo altro, che questo unico altro debba in ogni circostanza prevalere su di me; monade per monade, e a peso uguale, non è affatto necessario che il Tu, in tutti i casi, sia preferibile all’io! […] è in questa clausola derisoria che meglio si esprime l’imprescrittibile condanna dell’egoismo. Giacché in questa condanna c’è qualcosa di irrazionale!”
Ibidem pag. 34-35
Il sacrificio per Jankélévitch è quindi una sorta di paradosso che porta l’ego a difendersi e a soffrire nel momento in cui si relaziona con un’altro Io in quanto questo Io non risulta essere “un altro me stesso” ma, piuttosto, “un altro da me stesso”.
“Ciascuno è Io per sé e dinanzi a sé. Ripudiando l’ego, posso avere l’aria di rinnegare nella mia persona l’essenza universale dell’umano che onoro in altri, e di conseguenza mi contraddico. […] La legge che chiede all’ego il proprio olocausto gli chiede dunque, con una specie di scandalosa ingiustizia, il sacrificio della propria verità; essa è perciò una demonica iperbole e una non-verità. Questa non-verità […] è l’impenetrabile sopravverità, la misteriosa controverità dell’amore che comanda all’io di amare la seconda persona non solo a sue spese, ma talvolta, incomprensibilmente e follemente, a spese di tutti gli altri.”
Ibidem pag. 35-36
L’assurdità della relazione amorosa sta dunque nell’insensata distruzione dell’Io, costretto ad abbracciare il mistero dell’Altro. Diventa chiaro che la ricerca dell’irraggiungibile è un percorso che parte dall’ego per arrivare alla sua crocifissione. In fondo perché ci struggiamo per qualcuno, perché soffriamo nella nostra solitudine? Perché se fossimo completamente assuefatti di fronte a un’esperienza probabilmente non vivremmo secondo il nostro volere. Quel senso di autodistruzione ci fa sentire ancorati al nostro Io, frustrati per qualcosa che non avremo mai, ma stimolati a continuare, a cercare di amare veramente qualcuno o qualcosa che rappresenterà sempre l’ignota condizione dell’Altro.


Il video ufficiale ha come protagonisti Angeliki Tzortzakaki e Davide Porcedda.
THE BOYS AND KIFER – band diary 3

THE BOYS AND KIFER – band diary 2



















THE BOYS AND KIFER – band diary 1






The Boys and Kifer is a music band.
The name comes from the crippling of the names of two important German artists: Joseph Beuys and Anselm Kiefer.
The band combines music, lights, atmosphere and videos in unique events which act as proper social experiments. In this sense Roberto Casti, the artist who is behind the project, tries to unhinge the conventional logics of the concert in order to approach an artistic performance, but without creating a diversion from the music, which remains the mainstay of everything.
The concerts, all played solo, revolve around the atmosphere created by the songs.
Every event is different, and every parallel action, also on the internet, is made to complete the visual and musical universe of The Boys and Kifer.